Pubblicato il bando per il nuovo ciclo del Master

Iscrizioni entro il 15 marzo

Fino al 15 marzo 2024 è possibile presentare domanda di ammissione al nuovo ciclo del Master di II livello in Drammaturgia e cinematografia, coordinato da Vincenzo Caputo e promosso dal Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.

Anche per questo nuovo ciclo (a.a. 2023-2024) sono previste lezioni in modalità sincrona, ma reperibili on demand, e attività laboratoriali in presenza e a distanza, al fine di permettere agli specializzandi fuori sede di seguire la lezione online contemporaneamente agli studenti accolti in aula.

"Attraverso corsi, seminari e specifici incontri – dichiara Vincenzo Caputo, coordinatore a partire da quest'anno accademico – il Master di II livello in Drammaturgia e cinematografia ha dimostrato una continua attenzione nei confronti del fermento artistico della città partenopea. Ha accolto le riflessioni di protagonisti dello spettacolo italiano (attori, registi, sceneggiatori), arricchendo il percorso formativo delle specializzande e degli specializzandi grazie a laboratori di critica e scrittura scenica".

"Da quando anni fa ho istituito il Master – dichiara Pasquale Sabbatino, membro del Consiglio Scientifico – ho sempre pensato che l'obiettivo dovesse essere quello di formare esperti della drammaturgia e della cinematografia, in grado di operare nel campo dello spettacolo e dell'industria culturale; nuovi autori, critici teatrali e cinematografici capaci di lavorare nei giornali, nelle televisioni e nell'editoria; docenti della drammaturgia e cinematografia in ambito scolastico; editori di testi teatrali, cinematografici e televisivi. Abbiamo sempre lavorato, affinché questo obiettivo si realizzasse".

Il Master organizza specifici incontri con personalità del mondo dello spettacolo, come è già accaduto nei cicli precedenti con Lucio AlloccaPeppe BarraAntonio CapuanoFortunato CerlinoMarcello CotugnoLuca De FilippoMaurizio de GiovanniFrancesco Di Leva, Mario GelardiPino Imperatore, Peppe LanzettaArturo MuselliAdriano Pantaleo, Alessandro PreziosiMariano RigilloFrancesco Saponaro e altri artisti o esperti del settore.

Il Master offre agli iscritti l'opportunità di sperimentare sul campo le conoscenze acquisite. Gli specializzandi, in qualità di critici teatrali, collaborano da tempo con Napoli Teatro Festival Italia, pubblicando un "diario di bordo critico" ospitato sul sito ufficiale. Inoltre hanno la possibilità di assistere alle attività dei teatri campani con accessi speciali alle prove generali e alle fasi di preparazione e produzione di "Un Posto al Sole" nella sede della Rai di Napoli.

Il titolo di studio del Master dà diritto al punteggio previsto dal MIUR per l'aggiornamento delle graduatorie della scuola.

vincenzo.caputo@unina.it

Iscrizione

Si ricorda che per tutti coloro i quali verranno giudicati idonei e vincitori  il contributo di iscrizione al Master ammonta a € 516,00 pagabile in un'unica rata, oltre ad € 160,00 per la tassa regionale per il diritto allo studio universitario.

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Master in Drammaturgia e Premio Penisola Sorrentina

Master in Drammaturgia e Premio Penisola Sorrentina, rinnovata la partnership

Il Master di II livello in Drammaturgia e Cinematografia federiciano sarà tra i protagonisti della XXVIII edizione del Premio Penisola Sorrentina, l'evento dedicato al cinema e all'audiovisivo, in programma il 27 e il 28 ottobre 2022 a Sorrento.

Si rinnova, per il terzo anno consecutivo, la partnership tra il Master in Drammaturgia e Cinematografia dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e l'organizzazione del Premio Penisola Sorrentina.  L'appuntamento è stato al Teatro Armida di Sorrento il  28 ottobre 2023.

In occasione della serata d'onore dedicata al mondo del cinema e dell'audiovisivo, promossa dal Comune di Sorrento con la direzione artistica di Mario Esposito, il Sottosegretario all’istruzione Paola Frassinetti ha consegnato insieme con il coordinatore del Master, il prof. Pasquale Sabbatino, il Premio speciale conferito dall’organo accademico al film: “Mixed by Erry” nelle persone dell’autrice del libro da cui è stato tratto il soggetto, Simona Frasca, e dell’interprete Adriano Pantaleo.

Un connubio, quello fra il Premio e il Master federiciano, che nasce sotto l'egida di una comune volontà di diffondere la cultura cinematografica e di creare una rete di rapporti sinergici fra studiosi, opinion leader, artisti e professionisti del settore. L'obiettivo è determinare opportunità di crescita per il settore attraverso il confronto e il giusto tributo agli artisti che con la loro professionalità hanno arricchito il panorama nazionale e internazionale del Cinema.

Per maggiori informazioni http://www.premiopenisolasorrentina.it

 

Bohéme

di Sabrina Trentin

BOHÉME

Elementi di attualizzazione in un impianto ottocentesco e trasfigurazione in favola rendono atemporale la storia de La bohéme di Puccini raccontata dalla regista Emma DANTE al San Carlo di Napoli. In una ambientazione tutta in esterni- non una soffitta ma i tetti di Parigi di un condominio, per la scenografia suggestiva di Carmine Maringola - la vita irrompe frenetica e brulicante trascinando in una festosa allegria i bohemiens. Ci sono una prostituta e un trans, in corsetto e parrucca, cinque suore e un cardinale, due ballerini, tutti si muovono incessantemente impegnati nella propria vita, impossibile non seguirli con lo sguardo, mentre i protagonisti cercano di scaldarsi con il fumo dei tantissimi comignoli. Se il libretto di Illica e Giacosa, tratto dal romanzo di Murger, è ambientato nel 1830, qui le riproduzioni pittoriche rimandano alla fine del secolo: Toulouse-Lautrec campeggia, ma come murales, sulla scena. La contemporaneità fa capolino ancora su un muro: grande e stagliata, una crepa riproduce la Cicatrice di Betlemme di Bansky, stella cometa per l’artista londinese, in perfetta sintonia con la vigilia di Natale, giorno in cui ha inizio la storia di Mimì e Rodolfo. Anche Scarpetta rivive sulla scena tramite la citazione del pranzo con i maccheroni da Miseria e nobiltà. Miseri di sempre e di ovunque, quindi.

E poi c’è il sogno. Fioraia e poeta hanno un loro doppio in una coppia di ballerini, che danzano lievi citando Chagall, e anticipano o sottolineano con le loro coreografie, ideate da Sandro Maria Campagna, le vicende dei due innamorati. Il sogno continua nel secondo quadro al quartiere latino, dove alberi di Natale scendono sospesi come candelieri e acrobati danno vita a giocattoli animati caratterizzati da festosi e accesi costumi - bellissimi, di Vanessa Sannino - richiamando un’altra viglia, quella dello Schiaccianoci. Richiamo che continua con le movenze da battaglia contro i topi delle guardie alla Barrière d'Enfer del terzo quadro, nel cui finale sui due amanti nevicheranno prima fiocchi e poi petali colorati a mostrare “la stagion de fiori” in cui si lasceranno. Gli ultimi toni accesi sono quelli che emergono, nel grigiore totale, da sotto le divise che le guardie si strappano rimaste sole in scena, cadendo poi esanimi e immobili, con pose da marionetta, chi ubbidisce ad altri non ha vita.

Favola e sogno cedono alla tragedia nell’ultimo quadro. Si torna fra i tetti, in mezzo ai comignoli già baluginano rossi ceri votivi. Quello che era atteso sta per avvenire, già anticipato, come nella musica, fin dal primo quadro. Allora era la preghiera delle suore guidata dal cardinale, quasi infernale meccanismo d’orologio, contemporanea alla apparizione di Mimì sulla scena, erano le collane, grandi rosari con ben visibile croce, che la ragazza indossa o, nel secondo quadro, vuole acquistare. Adesso, oltre ai ceri, c’è un nuovo murales, Seule di Toulouse-Lautrec, Marcello sta completando la donna emaciata, coricata su un letto di schiena, contornata da color senape spento, e c’è la crepa nel muro, che diviene croce di luce azzurra tra i ceri rossi accesi nel buio totale del palcoscenico divenuto, spirata Mimì, cimitero: la cometa di Natale, simbolo di nascita, si è trasformata in un segno di morte. Spettacolo per gli occhi, coerente, a cui ogni elemento contribuisce, comprese le luci di Cristian Zucaro, magiche come i sogni e fisse come il destino, e spettacolo per le orecchie. Il direttore Francesco Lanzillotta accentua il lirismo e rende ben percepibili i temi, guidando un’orchestra che dà buona prova di sé. Selene Zanetti ha interpretato una Mimì dolce e umile, con voce estesa dal bel colore, Vittorio Grigolo, istrionico tenore pop star, ha dato vita a un Rodolfo a volte sopra le righe, dando sfoggio della voce potente, anche a scapito dell’equilibrio sonoro e della verosimiglianza interpretativa, soprattutto nel finale. Laura Ulloa ha incarnato una Musetta capricciosa, con voce acuta e sicura, ben interpretati Marcello da Andrzej Filonczyk, dalla bella voce rotonda, Colline da Alessio Cacciamani, applausi alla sua “vecchia zimarra”, e Schaunard da Pietro Di Bianco. Bene anche il coro, diretto da Josè Luis Basso, prossimo a lasciare il San Carlo, e il coro di voci bianche preparato da Stefania Rinaldi. Il pubblico, con abbondanza di stranieri, ha lungamente applaudito.

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO

di Antonella Maione

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO

In “Napoleone. La morte di Dio”, il monologo, andato in scena al Politeama di Napoli, di Davide Sacco, rappresenta il dramma di un figlio che piange con lacrime asciutte la morte del padre. Lino Guanciale, nelle vesti di figlio, rievoca l’evento trascritto in un libretto da un allora giovane Victor Hugo, che assiste, nella capitale francese, al rientro della salma dell’ormai innocuo imperatore, vent’anni dopo la sua morte. La cronaca diventa materia da cui il regista parte per sviluppare il rapporto che lega le due figure prescindendo dal tempo finito della vita terrena. Napoleone è morto, e, un figlio piange suo padre come se fosse l’imperatore. I riflettori sono per Lei, la morte, leggibile a centro titolo, e resa su un duplice piano narrativo e temporale. Nello spazio, il movimento è espresso da due figure, rispondenti a Simona Boo e Amedeo Carlo Capitanelli, impegnate a sistemare oggetti e materiali che non subiscono arresto: i due servi di scena: srotolano, ondeggiano un enorme tappeto di plastica; scaricano terra o sollevano volutamente polvere. Elementi simbolici nel racconto della morte che circondano la panca su cui Guanciale si sposta, da seduto o all’in piedi, da un lato all’altro della stessa, non ponendo fine al monologo che attraversa l’intero spettacolo.

Uno dei pochi spostamenti in diagonale compiuti vanno a favore di un proiettore con luce calda. Anch’essa simbolica e, a tratti, comprimaria in scena. Resa da Andrea Pistoia, anche mediante la discesa improvvisa, di lampadari di cristallo che si arrestano su differenti livelli. Dunque, Guanciale stringe in mano un pugno di terra bruna che avvicina al faretto di luce chiara mentre evoca, a più riprese, il primo verso del Cinque Maggio di Manzoni, quel “Ei fu” che tradotto nella narrazione di Sacco ci consegna un padre terreno, di cui si ripropongono memorabili dettagli, come quello di radersi. Sguardo e tempo sembrano bloccati: Egli fu, ora non è più, nella dimensione straziante che solo l’amore di un figlio può evocare, al punto da eguagliare Presenza a corposa assenza.

L’indignazione è forte per la mancanza di empatia dei partecipanti al corteo: “Tanto dopo torneranno alle loro vite.” Suggestiva, la martellante, ossessiva, interminabile, ripetizione della sillaba pa, nel cantato in dialetto napoletano di Simona Boo, che dalla pancia fa salire il sommerso emotivo. Non vi è Distanza. E l’amore è tale che un padre diventa, dinanzi agli occhi di un figlio, molto più di un imperatore. “Il cielo si fa nero. I fiocchi di neve lo seminano con lacrime bianche.” Il corteo è festoso: in scena lo si rende con spostamenti, fra questi quello della panca messa in verticale che simula la bara. Tutto è concitato assieme alla voce tremula di Guanciale. “Sedici cavalli accompagnano il feretro.” È morto UN padre, anche se questi si fosse chiamato Napoleone, per il figlio, per tutti i figli, Egli sarebbe stato Dio. Le luci sono accese quando all’improvviso al centro precipita una bara con un tonfo, che copre le voci. L’occhio fermo della sala è vigile: l’immagine, statica. Il piano narrativo, unico. In scena, Napoleone. La morte di Dio.

Migliore testo teatrale, sceneggiatura cinematografica e scrittura seriale di fiction televisive

XXIII Edizione Premio Massimo Troisi

Anche quest'anno la giuria composta dai docenti del Master in Drammaturgia e cinematografia dell'Università degli Studi di Napoli Federico II (Pasquale Sabbatino, coordinatore del Master, Vincenzo Caputo, Anna Masecchia, Matteo Palumbo, Giuseppina Scognamiglio) assegnerà, nell'ambito del Premio Massimo Troisi – Comune di San Giorgio a Cremano, un riconoscimento al migliore "Autore emergente" all'interno della sezione "Migliore testo teatrale, sceneggiatura cinematografica e scrittura seriale di fiction televisive" (per tale riconoscimento è prevista una borsa di studio).

Giunto alla sua XXIII edizione, il Premio Massimo Troisi si svolgerà dal 26 giugno al I luglio 2023 a San Giorgio a Cremano, città natale dell'indimenticato attore e regista, sotto la direzione di Gino Rivieccio.  La kermesse darà la possibilità a talenti emergenti di concorrere ad ambiti premi e riconoscimenti con l'obiettivo di consegnare a studenti e studiosi, appassionati e addetti ai lavori, l'immagine inedita di un Troisi vivo e prolifico.

«Uno degli obiettivi principali del Master in Drammaturgia e cinematografia – afferma Pasquale Sabbatino – è formare e valorizzare esperti, curatori di testi scenici, autori e critici teatrali. In questo senso il Premio Massimo Troisi si mostra sensibile nel sostenere il talento delle nuove generazioni attraverso la scelta meritoria di assegnare una borsa di studio a giovani autrici e autori».

Oltre all'autore emergente, la giuria del Master assegnerà anche un "Premio speciale" riservato invece a personalità che si sono distinte negli ultimi anni nel lavoro teatrale, cinematografico e televisivo (tra i premiati delle scorse edizioni è possibile menzionare Ippolita Di Majo, Arturo Muselli, Maurizio Braucci). Quest'anno il premio speciale sarà assegnato ad Adriano Pantaleo.

«Il premio speciale ad Adriano Pantaleo – dichiara Vincenzo Caputo – vuole essere il riconoscimento alla carriera ormai trentennale di un artista che dagli esordi cinematografici e televisivi (come non ricordare Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller del 1992) fino all'impegnativo confronto con i classici del nostro teatro (si veda Natale in casa Cupiello di Edoardo De Angelis del 2020) ha mostrato tutto il suo poliedrico talento».

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Al via il nuovo ciclo del Master per l’anno accademico 2022/23

Iscrizioni entro il 17 marzo

Con Decreto Rettorale 2023/411 del 13/02/2023 è stato indetto, per l'anno accademico 2022/2023, il concorso pubblico, per titoli, a numero 50 posti per l'ammissione al corso di Master di II livello in Drammaturgia e Cinematografia, afferente al Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.

Il Master si propone di realizzare, nel contesto del sistema teatrale e cinematografico contemporanei, un percorso formativo finalizzato alla formazione di esperti della drammaturgia e cinematografia europea in grado di operare nel campo dello spettacolo e dell’industria culturale; nuovi autori; critici teatrali e cinematografici capaci di lavorare nei giornali, nelle televisioni e nell’editoria; docenti della drammaturgia e cinematografia in ambito scolastico; editori di testi teatrali, cinematografici e televisivi. Laboratori e stage approfondiscono aspetti particolari del percorso formativo professionale, consentendo ai corsisti di avvicinarsi direttamente alla critica teatrale e cinematografica, alla organizzazione di un ufficio-stampa e alla scrittura di testi per la scena.

Le molteplici attività del Master (dalla critica teatrale e cinematografica allo studio della drammaturgia italiana ed europea; dalla storia del cinema all’elaborazione di testi per lo spettacolo e per il giornalismo) sono finalizzate alla formazione professionale di esperti, che potranno inserirsi nel mondo lavorativo relativo ai settori della critica teatrale e cinematografica nonché delle scritture per la scena. A tal proposito il Master organizza specifici incontri con personalità del mondo dello spettacolo, come è già accaduto con Lucio Allocca, Peppe Barra, Antonio Capuano, Fortunato Cerlino, Marcello Cotugno, Luca De Filippo, Maurizio de Giovanni, Mario Gelardi, Pino Imperatore, Peppe Lanzetta, Mario Martone, Arturo Muselli, Alessandro Preziosi, Mariano Rigillo, Francesco Saponaro e altri artisti o esperti del settore.

Anche per questa edizione la didattica si svolgerà in modalità online su piattaforma microsoft TEAMS.

Per partecipare al concorso, il candidato dovrà, a pena di esclusione, presentare la domanda esclusivamente tramite la procedura telematica all'indirizzo internet http://www.concorsi.unina.it/domandeMaster/ entro e non oltre il 17 marzo 2023, ore 12:00.
Si ricorda che per tutti coloro i quali verranno giudicati idonei e vincitori  il contributo di iscrizione al Master ammonta a € 516,00 pagabile in un'unica rata, oltre ad € 160,00 per la tassa regionale per il diritto allo studio universitario.

 

Il bando completo è disponibile qui
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Al Teatro Bellini di Napoli Don Juan in Soho

Ispirata al Dom Juan ou le Festin de Pierre di Molière del 1665.

Recensione

 

È di scena al Teatro Bellini di Napoli Don Juan in Soho, adattamento della commedia del britannico Patrick Marber ispirata al Dom Juan ou le Festin de Pierre di Molière del 1665.

La regia è affidata a Gabriele Russo che in quest’opera esilarante e al tempo stesso cruda indaga il rapporto tra sessualità e società odierna.

Il protagonista è un dj dedito agli eccessi, interpretato dall’eclettico e coinvolgente Daniele Russo, che su un palcoscenico trasformato in pedana girevole vive il suo essere contemporaneo con spregiudicatezza ed intensità, perché vuole inseguire a tutti i costi i piaceri della carne, anche se a volte lui stesso sembra essere inseguito da un guizzo di coscienza che lo invita a pensare. Alla fine sarà l’eccentricità del suo ‘ego’ a prevalere, la sua natura deprecabile non lo farà pentire, neppure davanti al padre.

Figlio irriverente, nell’opera di Marber si ritrova a Soho, quartiere a luci rosse di Londra. Nella rivisitazione in scena in questi giorni al Bellini Daniele Russo incanta il pubblico con la sua fisicità che sa essere accattivante e mai volgare. Ai momenti seduttivi si affiancano i colori caldi di atmosfere che evocano le notti dei nightclub in cui si perdono Larry (Clive Owen) e Alice (Natalie Portman) di Closer, film di Mike Nichols del 2004, di cui Marber ha firmato la sceneggiatura.

È un quadro di tradizionale ribellione agli schemi quello in cui si muovono tutti gli altri personaggi, e lo fanno con disinvoltura, rimanendo ai margini della pedana per buona parte dello spettacolo, quasi a rimarcare l’unicità di Don Juan o semplicemente il giudizio morale al quale in fondo lo sottopongono. Eppure anch’essi rappresentano una società allo sbando, restando intrappolati nei suoi cliché.

In questo intreccio dalle tinte ritmate di sonorità elettriche, illumina, oltre ad un impianto scenico ben costruito da Roberto Crea, un istrionico Alfonso Postiglione che, in perfetta sincronia col protagonista, veste i panni di Stan, il servitore di Don Juan, e dopo aver invano cercato di convincerlo a cambiare, al momento della ‘resa dei conti’ che implacabile e tuonante governa la scena, abbandona il padrone al suo destino. La luce cala e il corpo di Don Juan si agita sulla pedana, perché si sente vittima travolta dalla sua stessa voglia di sesso. Ormai sembra dannato, proprio lui, l’estremo difensore del libero arbitrio! Ma è solo un attimo. Questo narcisista che non ha paura di esporsi rimane fedele a se stesso. Elvira, interpretata da una straordinaria Noemi Apuzzo, non riesce a farlo redimere, e da moglie tradita si trasforma in attivista ecologica.

Gabriele Russo ci presenta un’opera divertente e provocatoria che, pur nel suo linguaggio spudoratamente moderno, resta attaccata alle radici di un teatro che fa riflettere. Nel suo dinamismo,  mette in luce le contraddizioni dell’umanità, per farci scoprire che i vizi di Don Juan sono i pensieri che non smettono di assomigliarci, e che, il più delle volte per paura di noi stessi, non abbiamo il coraggio di attuare.

Autenticamente imperdibile.

Recensione di Mimma Iannone

Ph. Mario Spada

La vita sospesa in «Binario Morto» tra echi di Ruccello e Beckett

  Al Teatro Nuovo la pièce di Lello Guida per la regia di Alfano e Scardino

Nello spazio liminale di un vagone ferroviario, fermo da un tempo imprecisato, due uomini lasciano emergere desideri e insoddisfazioni sottesi alla routine dell’esistenza. Una donna che si sente la Vergine Madre, voce di una follia che forse non è meno folle delle traiettorie della vita, tra deliri e acque miracolose, promette a chi incontra la guarigione da peccati e malattie. Un aspirante suicida, appeso alla speranza di un treno che cancelli il suo dolore sotto le rotaie contro cui non ha mai il coraggio di lanciarsi, irrompe nei discorsi (e nelle vite) dei due protagonisti ricomponendone a sorpresa il puzzle degli incontri che deviano il percorso dei giorni dai binari di un quotidiano silenziosamente inchiodato al dolore di «vivere nei ritagli delle vite degli altri».

È su questo filo che si snoda Binario Morto, la pièce di Lello Guida (Premio «Annibale Ruccello» dello Stabia Teatro Festival 2022) allestita al Teatro Nuovo di Napoli per la regia di Franco Alfano ed Elena Scardino.

E si comprende subito che il «binario morto» del titolo non è che il grumo di vita intorno a cui si rapprende in un lampo la coscienza del Sé quando una creatura di nome uomo distoglie lo sguardo dallo stillicidio del tempo in cui è immerso o – meglio – sommerso, in un’intermittente apnea di aneliti e desideri di nuove e piene forme di realizzazione. Forse non è un caso che in una delle ampie didascalie del testo (da cui invero Alfano e Scardino sovente si emancipano esercitando sapientemente e legittimamente il diritto al tradimento della regia) Guida sottolinei, a proposito del personaggio di Maria, che «parla con affanno come chi ha appena fatto una lunga corsa [..] e la sua recitazione, condizionata dall’asma, comunicherà un senso di oppressione o difficoltà respiratoria». Maria discende, naturalmente, dalla Maria di Carmela protagonista di uno degli episodi di Mamma di Annibale Ruccello, di cui Lello Guida è stato compagno di scrittura e di avventura teatrale. Insieme hanno composto L’Osteria del melograno, Ipata e L’Ereditiera e fondato nel 1977 la Cooperativa teatrale Il Carro.

Guida in particolare ha seguito dall’interno tutti gli allestimenti dei testi di Ruccello in una vera e propria osmosi artistica di cui è inevitabile rinvenire le tracce anche nella pièce con cui oggi ritorna in teatro. In effetti, al di là di echi di situazioni e battute che possono rimandare a testi di Ruccello come il già citato Mamma, Ferdinando e Notturno di donna con ospiti, o del riferimento alla tradizione delle sette Madonne campane ovvero a quella ricerca antropologica sul folklore in cui affonda le prime radici il percorso teatrale di Ruccello condiviso con Guida, si può dire che il vero trait d’union tra i due autori sia piuttosto nella direzione da cui si muove lo sguardo sui protagonisti. Come nella cosiddetta trilogia del quotidiano da camera di Ruccello, infatti, essi sono quasi ‘spiati’ in una situazione apparentemente banale, minimale, e dai loro gesti, dalle loro manie, dai dialoghi dimessi affidati a un linguaggio quotidiano senza palpiti di poesia si staglia man mano la loro dolorosa condizione di sospensione tra la vita e i desideri sopiti e inespressi.

Tuttavia – e qui si impone la novità e la forza espressiva del testo di Lello Guida – mentre in Ruccello l’inciampo è rappresentato sempre da un processo di trasformazione culturale e dunque dalla «deportazione» e dal disadattamento dei personaggi da un contesto a un altro, Binario Morto è piuttosto proiettato verso la dimensione di una metafora esistenziale beckettianamente declinata. I personaggi di Guida non sono più dei contrassegni culturali individuati da un preciso status (il travestito, la casalinga, l’insegnante emigrata ecc.) ma le diverse facce di un’umanità che quando per caso si guarda allo specchio prova disperatamente a giocare la sua partita con il tempo, con la vita e con un’attesa indefinita, traboccante di rigurgiti di passato più che di speranze di futuro. Lo stesso personaggio di Damiano, il professore omosessuale di provincia, che pure esterna la rabbia e la paura della discriminazione, non è l’emblema di un corto circuito culturale o di un’impossibile transizione uomo-donna, ma piuttosto di una solitudine e una disillusione tout-court.

In Binario morto, dunque, il cosiddetto «minimalismo tragico» ruccelliano si configura come punto di ripartenza, più che di approdo, da cui Guida rimescola in teatro le carte dell’esistenza per suscitare domande, piuttosto che risposte, a uno strisciante e ambiguo mal de vivre.

Minimalismo tragico che la regia sublima rileggendo la pièce appunto secondo i canoni della tragedia – classica, naturalmente – ovvero unità di tempo, azione e luogo, assegnando agli attori una recitazione frontale nei momenti culminanti per farne personaggi epici nella loro condizione di isolamento esistenziale, spesso contrappuntato dalla nevrosi o dalla follia. Una chiave surreale cui è funzionale la scena dello stesso Alfano e di Aldo Arrigo, che alla dovizia di particolari realistici delle didascalie sostituisce una scenografia stilizzata di finestrini disegnati, mentre le contaminazioni elettroniche delle musiche di Gabriele Guida contrappuntano i climax ascendenti dei flash-back in cui riaffiorano traumi e segreti dei protagonisti.

Ciro Girardi nei panni di Cosimo è abile nei cambi di registro tipici del personaggio dell’ipocondriaco, complementare all’amara e dolorosa ironia dell’amico e compagno di viaggio Damiano interpretato da Antonio Grimaldi, che - e qui è inutile sottolineare, nomen omen, il gioco allusivo con i Santi medici e fratelli Cosma e Damiano - ne condividerà il destino. Roberto Lombardi è uno spiritato Salvatore, l’aspirante suicida di cui sa egregiamente riproporre con corpo e voce i picchi emotivi del disturbo bipolare. E infine Teti Lombardi è una ieratica affabulatrice di deliri nel ruolo di Maria, la sedicente Madonna ma anche grottesca Parca dispensatrice con le sue misteriose bottigliette di presunti veleni e presunti antidoti ovvero di Morte e di Risurrezione.

A un gioco fatale di misture è affidata, ambigua e surreale, la conclusione dello spettacolo che riporta alla mente il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere: «Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla».

 

Monica Citarella

 

 

 

“Incursioni teatrali. Sceneggiatori, attori e registi dietro lo schermo”

Ospite Adriano Falivene

Martedì 15 novembre 2022 alle 17.30 si terrà in modalità online, nell'ambito delle iniziative del Master di II livello in "Drammaturgia e cinematografia" dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, il seminario con l'attore Adriano Falivene, che inaugura il secondo ciclo di incontri dal titolo "Incursioni teatrali. Sceneggiatori, attori e registi dietro lo schermo". Si tratta di un vero e proprio esperimento che vede coinvolti diversi artisti del mondo teatrale contemporaneo, i quali presentano in diretta streaming i propri lavori in programmazione dialogando con le specializzande e gli specializzandi.

"L'obiettivo degli incontri – afferma Vincenzo Caputo docente del Master e curatore del ciclo di incontri – è di puntare l'attenzione sulle specifiche professionalità di registi, attori e sceneggiatori. L'emergenza pandemica degli anni scorsi ha imposto una riorganizzazione delle nostre attività di collaborazione con tali professionalità.  Da queste premesse è nato il progetto Incursioni Teatrali, che permette ai nostri specializzandi di ‘irrompere nei teatri' attraverso le piattaforme internet e di confrontarsi con attori e registi dopo un difficile periodo in cui è stato quasi impossibile farlo".

Il primo incontro sarà con l'attore Adriano Falivene, che è stato apprezzato dal grande pubblico grazie all'interpretazione di Bambinella nella celebre fiction Il commissario Ricciardi basata sulla serie di romanzi dello scrittore Maurizio de Giovanni. Quella interpretazione televisiva si è trasformata in interpretazione teatrale. Bambinella ha, infatti, girato i palcoscenici italiani con la fortunata piece Mettici la mano (per la regia di Alessandro D'Alatri). Con quest'opera siamo sempre a Napoli ma nella primavera del 1943. La scena è un vano interrato in tufo, un rifugio improvvisato per proteggersi dai bombardamenti, che diviene anche un'improbabile scenografia per una strana compagnia riunita dalla necessità del riparo. Qui lo spettatore, tra gli altri, può ritrovare appunto Bambinella ma anche il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo), personaggi a lui ormai familiari.

Per partecipare inviare una mail a vincenzo.caputo@unina.it

 

Anhell69, film documentario di Theo Montoya

RECENSIONE DI MIMMA IANNONE

È una dimensione parallela quella in cui ci trasporta Theo Montoya nel suo film documentario Anhell69, presentato il 25 ottobre in occasione dell'apertura della manifestazione “Venezia a Napoli. Il cinema esteso” nella Settimana Internazionale della Critica.

Nella película che il giovane regista colombiano definisce «senza frontiere, senza genere, trans», ed è sostanzialmente un tributo ai film colombiani, lui stesso si immagina morto in un carro funebre guidato da Victor Gaviria, regista da cui è stato fortemente influenzato, come afferma rivolgendosi ad un pubblico di studenti accorsi a vedere il suo lavoro al cinema Academy Astra.

Scenario del film è la città di Medellìn, importante centro industriale nonché capoluogo del dipartimento di Antioquia, che assume un significato profondo in questo viaggio dalle tinte rosse di feste clandestine, in cui un gruppo di amici fa uso di droghe e attraverso i social riempie il vuoto esistenziale che governa il giorno, mentre la notte è l'unico momento in cui vivere perché, che sia di overdose, di guerriglia, per colpa di un pazzo o della polizia, si muore tante volte in questa parte di mondo da arrivare a non avere aspettative per il futuro. Ma che cos'è il futuro per un paese che non ha mai conosciuto la pace, che ha dovuto aspettare cinquantadue anni affinché fosse firmato un Accordo di Pace? Il riferimento è al 2016, anno in cui il Presidente Juan Manuel Santos e il Leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno posto fine ai conflitti in Colombia.

Camilo Najar è il protagonista del film di Montoya. Nel 2017 viene invitato dal regista insieme ad altri amici a partecipare ad alcuni provini. Rappresentano l'immagine di una città inabissata in un nichilismo che non riesce a vedere oltre il buio, tranne che in quel passaggio che trova proprio nel cinema una forma di riscatto. Ed ecco che i provini diventano un momento per vivere il presente, e la videocamera un'arma che con coraggio Montoya sfodera nelle strade infestate dalla violenza.

È un racconto al passato il suo, che parte dalla storia di un ragazzo morto a 21 anni di eroina.  È il cinema di quelli che sono stati cacciati via, e il nickname Anhell69 è un ottimo espediente attraverso il quale passare inosservati e nello stesso tempo esserci là dove non ci sono padri e l'unico modello è Pablo Escobar. Quelli che non appartengono, per dirla col regista, gli spettrofili, escono di notte e Anhell, dopo la sua morte, si trasforma in un fantasma, divenendo il simbolo di una generazione vittima della pulizia sociale, dei cacciatori di spettrofili, quelli che vogliono eliminare gli omosessuali, i drogati, i guerriglieri.

«Mi sono rifugiato nel cinema perché era l'unico luogo dove potevo piangere», ha detto Theo Montoya, che ha visto morire ad uno ad uno i propri amici. Forse per questo alla domanda di una studentessa presente in sala ha risposto «abbiamo bisogno di piangere di più».

È un cimitero a cielo aperto quello in cui Scharlott passa davanti alle tombe dei fantasmi del piano B. Montoya chiama così coloro che «attraverso Anhell69 hanno iniziato a convivere con i civili». Scharlott vuole essere filmata da sola, e il suo ultimo testimone è proprio Theo Montoya. «La morte è la nostra amica», racconta al provino, ed è un'idea questa che ha qualcosa di trascendentale, perché concepisce la parte più nera dell'esistenza umana non come una sofferenza, ma come uno spunto per ricominciare. Le inquadrature su Medellìn si alternano tra la cupezza della notte che diventa amore e la bellezza di un giorno che soltanto morendo può rinascere. Un ragazzo scrive su un muro Anhell69 e dice «voglio appartenere». E forse la vita, alla fine, anche per lui è la vera risposta.