La vita sospesa in «Binario Morto» tra echi di Ruccello e Beckett

  Al Teatro Nuovo la pièce di Lello Guida per la regia di Alfano e Scardino

Nello spazio liminale di un vagone ferroviario, fermo da un tempo imprecisato, due uomini lasciano emergere desideri e insoddisfazioni sottesi alla routine dell’esistenza. Una donna che si sente la Vergine Madre, voce di una follia che forse non è meno folle delle traiettorie della vita, tra deliri e acque miracolose, promette a chi incontra la guarigione da peccati e malattie. Un aspirante suicida, appeso alla speranza di un treno che cancelli il suo dolore sotto le rotaie contro cui non ha mai il coraggio di lanciarsi, irrompe nei discorsi (e nelle vite) dei due protagonisti ricomponendone a sorpresa il puzzle degli incontri che deviano il percorso dei giorni dai binari di un quotidiano silenziosamente inchiodato al dolore di «vivere nei ritagli delle vite degli altri».

È su questo filo che si snoda Binario Morto, la pièce di Lello Guida (Premio «Annibale Ruccello» dello Stabia Teatro Festival 2022) allestita al Teatro Nuovo di Napoli per la regia di Franco Alfano ed Elena Scardino.

E si comprende subito che il «binario morto» del titolo non è che il grumo di vita intorno a cui si rapprende in un lampo la coscienza del Sé quando una creatura di nome uomo distoglie lo sguardo dallo stillicidio del tempo in cui è immerso o – meglio – sommerso, in un’intermittente apnea di aneliti e desideri di nuove e piene forme di realizzazione. Forse non è un caso che in una delle ampie didascalie del testo (da cui invero Alfano e Scardino sovente si emancipano esercitando sapientemente e legittimamente il diritto al tradimento della regia) Guida sottolinei, a proposito del personaggio di Maria, che «parla con affanno come chi ha appena fatto una lunga corsa [..] e la sua recitazione, condizionata dall’asma, comunicherà un senso di oppressione o difficoltà respiratoria». Maria discende, naturalmente, dalla Maria di Carmela protagonista di uno degli episodi di Mamma di Annibale Ruccello, di cui Lello Guida è stato compagno di scrittura e di avventura teatrale. Insieme hanno composto L’Osteria del melograno, Ipata e L’Ereditiera e fondato nel 1977 la Cooperativa teatrale Il Carro.

Guida in particolare ha seguito dall’interno tutti gli allestimenti dei testi di Ruccello in una vera e propria osmosi artistica di cui è inevitabile rinvenire le tracce anche nella pièce con cui oggi ritorna in teatro. In effetti, al di là di echi di situazioni e battute che possono rimandare a testi di Ruccello come il già citato Mamma, Ferdinando e Notturno di donna con ospiti, o del riferimento alla tradizione delle sette Madonne campane ovvero a quella ricerca antropologica sul folklore in cui affonda le prime radici il percorso teatrale di Ruccello condiviso con Guida, si può dire che il vero trait d’union tra i due autori sia piuttosto nella direzione da cui si muove lo sguardo sui protagonisti. Come nella cosiddetta trilogia del quotidiano da camera di Ruccello, infatti, essi sono quasi ‘spiati’ in una situazione apparentemente banale, minimale, e dai loro gesti, dalle loro manie, dai dialoghi dimessi affidati a un linguaggio quotidiano senza palpiti di poesia si staglia man mano la loro dolorosa condizione di sospensione tra la vita e i desideri sopiti e inespressi.

Tuttavia – e qui si impone la novità e la forza espressiva del testo di Lello Guida – mentre in Ruccello l’inciampo è rappresentato sempre da un processo di trasformazione culturale e dunque dalla «deportazione» e dal disadattamento dei personaggi da un contesto a un altro, Binario Morto è piuttosto proiettato verso la dimensione di una metafora esistenziale beckettianamente declinata. I personaggi di Guida non sono più dei contrassegni culturali individuati da un preciso status (il travestito, la casalinga, l’insegnante emigrata ecc.) ma le diverse facce di un’umanità che quando per caso si guarda allo specchio prova disperatamente a giocare la sua partita con il tempo, con la vita e con un’attesa indefinita, traboccante di rigurgiti di passato più che di speranze di futuro. Lo stesso personaggio di Damiano, il professore omosessuale di provincia, che pure esterna la rabbia e la paura della discriminazione, non è l’emblema di un corto circuito culturale o di un’impossibile transizione uomo-donna, ma piuttosto di una solitudine e una disillusione tout-court.

In Binario morto, dunque, il cosiddetto «minimalismo tragico» ruccelliano si configura come punto di ripartenza, più che di approdo, da cui Guida rimescola in teatro le carte dell’esistenza per suscitare domande, piuttosto che risposte, a uno strisciante e ambiguo mal de vivre.

Minimalismo tragico che la regia sublima rileggendo la pièce appunto secondo i canoni della tragedia – classica, naturalmente – ovvero unità di tempo, azione e luogo, assegnando agli attori una recitazione frontale nei momenti culminanti per farne personaggi epici nella loro condizione di isolamento esistenziale, spesso contrappuntato dalla nevrosi o dalla follia. Una chiave surreale cui è funzionale la scena dello stesso Alfano e di Aldo Arrigo, che alla dovizia di particolari realistici delle didascalie sostituisce una scenografia stilizzata di finestrini disegnati, mentre le contaminazioni elettroniche delle musiche di Gabriele Guida contrappuntano i climax ascendenti dei flash-back in cui riaffiorano traumi e segreti dei protagonisti.

Ciro Girardi nei panni di Cosimo è abile nei cambi di registro tipici del personaggio dell’ipocondriaco, complementare all’amara e dolorosa ironia dell’amico e compagno di viaggio Damiano interpretato da Antonio Grimaldi, che - e qui è inutile sottolineare, nomen omen, il gioco allusivo con i Santi medici e fratelli Cosma e Damiano - ne condividerà il destino. Roberto Lombardi è uno spiritato Salvatore, l’aspirante suicida di cui sa egregiamente riproporre con corpo e voce i picchi emotivi del disturbo bipolare. E infine Teti Lombardi è una ieratica affabulatrice di deliri nel ruolo di Maria, la sedicente Madonna ma anche grottesca Parca dispensatrice con le sue misteriose bottigliette di presunti veleni e presunti antidoti ovvero di Morte e di Risurrezione.

A un gioco fatale di misture è affidata, ambigua e surreale, la conclusione dello spettacolo che riporta alla mente il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere: «Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla».

 

Monica Citarella

 

 

 

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