di Antonella Maione

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO

In “Napoleone. La morte di Dio”, il monologo, andato in scena al Politeama di Napoli, di Davide Sacco, rappresenta il dramma di un figlio che piange con lacrime asciutte la morte del padre. Lino Guanciale, nelle vesti di figlio, rievoca l’evento trascritto in un libretto da un allora giovane Victor Hugo, che assiste, nella capitale francese, al rientro della salma dell’ormai innocuo imperatore, vent’anni dopo la sua morte. La cronaca diventa materia da cui il regista parte per sviluppare il rapporto che lega le due figure prescindendo dal tempo finito della vita terrena. Napoleone è morto, e, un figlio piange suo padre come se fosse l’imperatore. I riflettori sono per Lei, la morte, leggibile a centro titolo, e resa su un duplice piano narrativo e temporale. Nello spazio, il movimento è espresso da due figure, rispondenti a Simona Boo e Amedeo Carlo Capitanelli, impegnate a sistemare oggetti e materiali che non subiscono arresto: i due servi di scena: srotolano, ondeggiano un enorme tappeto di plastica; scaricano terra o sollevano volutamente polvere. Elementi simbolici nel racconto della morte che circondano la panca su cui Guanciale si sposta, da seduto o all’in piedi, da un lato all’altro della stessa, non ponendo fine al monologo che attraversa l’intero spettacolo.

Uno dei pochi spostamenti in diagonale compiuti vanno a favore di un proiettore con luce calda. Anch’essa simbolica e, a tratti, comprimaria in scena. Resa da Andrea Pistoia, anche mediante la discesa improvvisa, di lampadari di cristallo che si arrestano su differenti livelli. Dunque, Guanciale stringe in mano un pugno di terra bruna che avvicina al faretto di luce chiara mentre evoca, a più riprese, il primo verso del Cinque Maggio di Manzoni, quel “Ei fu” che tradotto nella narrazione di Sacco ci consegna un padre terreno, di cui si ripropongono memorabili dettagli, come quello di radersi. Sguardo e tempo sembrano bloccati: Egli fu, ora non è più, nella dimensione straziante che solo l’amore di un figlio può evocare, al punto da eguagliare Presenza a corposa assenza.

L’indignazione è forte per la mancanza di empatia dei partecipanti al corteo: “Tanto dopo torneranno alle loro vite.” Suggestiva, la martellante, ossessiva, interminabile, ripetizione della sillaba pa, nel cantato in dialetto napoletano di Simona Boo, che dalla pancia fa salire il sommerso emotivo. Non vi è Distanza. E l’amore è tale che un padre diventa, dinanzi agli occhi di un figlio, molto più di un imperatore. “Il cielo si fa nero. I fiocchi di neve lo seminano con lacrime bianche.” Il corteo è festoso: in scena lo si rende con spostamenti, fra questi quello della panca messa in verticale che simula la bara. Tutto è concitato assieme alla voce tremula di Guanciale. “Sedici cavalli accompagnano il feretro.” È morto UN padre, anche se questi si fosse chiamato Napoleone, per il figlio, per tutti i figli, Egli sarebbe stato Dio. Le luci sono accese quando all’improvviso al centro precipita una bara con un tonfo, che copre le voci. L’occhio fermo della sala è vigile: l’immagine, statica. Il piano narrativo, unico. In scena, Napoleone. La morte di Dio.

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