I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA

di Antonio Setola

I PROMESSI SPOSI ALLA PROVA

I classici sono classici perché hanno ancora qualcosa da dirci, a patto di saperli interrogare, o meglio, saper metterli alla prova. È quello che compie Andrée Ruth Shammah, con I promessi sposi alla prova, che attraverso il testo di Testori, tenta di interpellare ancora una volta il lascito, critico, morale, simbolico manzoniano per consentirgli di dire quello che ancora ha da dirci. La scrittura di Testori tradisce e accoglie, al contempo, il capolavoro di Manzoni; e con la sua scrittura giovani interpreti affiancati da grandi attori (Giovanni Crippa, Federica Fracassi, Carlina Torta) si mettono appunto alla prova. L’opera si presenta come un passaggio di testimone e insieme un omaggio a Franco Parenti, maestro sia di vita che sulla scena: era lui il Maestro nell’opera originaria rappresentata per la prima volta nel 1984; e nel riallestimento proposto, chi al tempo interpretò Renzo ora nei panni della figura del Maestro, oltreché col lascito manzoniano (filtrato da Testori), si trova a fare i conti col lascito di una figura storica come Parenti.

La scenografia ricostruisce un teatro sul quale degli attori stanno tentando di mettere in scena I promessi Sposi. Ma più che attori, sembrano essere gli stessi personaggi del romanzo; come se i protagonisti manzoniani fossero stati convocati a riproporre il loro dramma. Forse semplicemente ogni attore non riesce a non essere il personaggio che recita; al contempo a ogni scena, ognuno dei personaggi commenta le proprie azioni, come se Don Abbondio d’un tratto uscisse fuori dal romanzo e spiegasse il motivo dei suoi tormenti, della sua paura. Significativa è la figura del “Maestro”, frontman dell’opera, che si pone come medium tra finzione scenica e realtà extra-teatrale, tra rappresentazione e critica letteraria, tra azione e commento. È il garante della veridicità filologica del testo manzoniano. Ma è lo stesso che spinge gli attori a cacciar fuori tutti gli impliciti dei personaggi: Lucia che brama carnalmente Renzo; Don Rodrigo che desidera Lucia sì, ma non per disumanità bensì perché il desiderio è umano, troppo umano. Fra Cristoforo che forse, anche lui la desidera, ma non sa di desiderarla. La sventurata, Gertrude, una sorta di sposa nero vestita, decadente e passionale, che si strugge per il suo amore carnale e autentico, forse non meno autentico di quello tra Lucia e Renzo. E allora perché l’autore le ha negato di esser lei la protagonista?

Da rilevare che La monaca di Monza è l’unica a non avere ambiguità circa la sua totale adesione al personaggio che è e non può non essere. Poi, L’innominato che appare senza volto oltre che senza nome, e come parlandoci da una recondita lontanissima dimensione (l’effetto scenico è ottenuto con l’ausilio di un microfono) ammette già le sue colpe, ammette già il nulla su cui ha costruito il suo impero di misfatti. La meta-teatralità appare come pretesto per la metanarrazione. L’opera, di fatti, non si pone come obiettivo quello di trasporre sulla scena il romanzo; l’obiettivo di Testori e Shammah è appunto “mettere alla prova” il testo; in gioco è la parola degli altri, le parole che sono state dette sul romanzo manzoniano e che inevitabilmente si sono attaccate al testo tanto da diventarne parte integrante. È inevitabile allora che si parta da tutto quello che è stato detto e da lì si esprima tutto quello che c’è ancora da dire.