FRIGENTI MARTELLO

di Carlo Frigenti

IL NOSTRO MARTELLO È IN MANO A MIA FIGLIA

Un monito campeggia al centro del palcoscenico, “WHAT’S DONE CAN’T BE UNDONE”, mentre una ragazza appare alle spalle della platea e inizia a raccontare una storia. Così ha inizio “Il nostro martello è in mano a mia figlia”, dalla penna dello sceneggiatore e drammaturgo statunitense Brian Watkins, nella versione proposta da Martina Glenda. La storia ci porta a Eaton, cittadina del Colorado tra le praterie. Due sorelle, la premurosa Sarah e la scontrosa Hannah, vivono in una fattoria insieme alla madre malata, prendendosene cura dopo l’abbandono da parte del padre. Tuttavia, la donna si aggrappa al passato e ai vecchi ricordi del marito, risultando incoerente e folle agli occhi delle figlie, che assecondano ogni sua richiesta, accettando perfino di tenere in casa come animale domestico la pecora Vicky, ultimo regalo del padre a cui la madre è morbosamente affezionata. Sarà proprio l’odio delle sorelle per Vicky a far traboccare un vaso ormai colmo, portandole a commettere una serie inarrestabile di atti violenti.

Il testo di Watkins si struttura come un monologo intrecciato delle due sorelle diretto agli spettatori, senza mai rivolgersi l’una all’altra, con un racconto sincero, incalzante e ben narrato che non risparmia i particolari più crudi e macabri. Un dramma familiare che diventa un thriller dalle sfumature orrorifiche, sostenuto, nella messa in scena di Glenda, da un gioco di luci taglienti e silhouette che producono un’atmosfera cupa e colma di suspence. Tuttavia, ciò che viene raccontato non accade mai concretamente sul palcoscenico, ma è riprodotto dalle attrici attraverso gesti e alcuni oggetti di scena. Sebbene queste scelte possano risultare rischiose per il ritmo, in realtà il coinvolgimento del pubblico resta vivo fino alla fine, soprattutto grazie all’energia e alla forza espressiva delle due più che convincenti interpreti, Federica Carruba Toscano e Arianna Cremona.

L’intero spettacolo è un grande rito, una serie di ricordi rievocati dalle sorelle per il bisogno disperato di condividere il peso delle loro colpe con qualcuno. Ad amplificare questo concetto si inseriscono una serie di azioni ripetute dalle attrici e la scenografia di Sara Palmieri, composta da pochi elementi simbolici come il recinto in cui viene posizionata dapprima una casa in miniatura e successivamente una pira. Oltre all’atto rituale del ricordo, le protagoniste hanno la sensazione di ripetere eventi già accaduti in passato. Come se avessero ricevuto in eredità un gene maligno che si manifesta in determinate condizioni, guidandole sul sentiero della violenza. Sarah e Hannah, come tutti, sono il prodotto del contesto sociale e familiare in cui sono cresciute, una famiglia profondamente disfunzionale nel loro caso. Proprio il titolo allude alle colpe dei genitori che con il loro “martello” forgiano i propri figli, dimenticando che, prima o poi, anche loro avranno in mano quello stesso martello.