IL RITO

di Carlo Frigenti

IL RITO

Arte e legge. Un binomio all’apparenza antitetico, e tuttavia in costante dialogo: da una parte un mezzo creativo ed espressivo; dall’altra il principio regolatore per eccellenza. “Il rito”, adattamento teatrale di Alfonso Postiglione dell’omonimo film di Ingmar Bergman, espone proprio il conflitto tra l’espressione artistica e la legislatura che, attraverso la censura, impone ad essa dei limiti. Le vicende vedono protagonisti un trio di artisti di varietà (Hans, Thea e Sebastian) alle prese con un’accusa per la presunta oscenità di un loro numero. Spetta al giudice Abrahmsson esaminare il caso ed emettere una sentenza. Tuttavia, durante gli interrogatori, l’interesse del giudice verso gli artisti lo porta ad approfondire la loro vita privata, compreso il loro ménage à trois. Ma quando assiste al numero incriminato il giudice è costretto a fare i conti coi suoi traumi e la sua vera natura.

Postiglione ripropone l’opera di Bergman con una messa in scena ricca di simbolismi. I personaggi, vere e proprie figure freudiane, sono interpretati in modo estremamente fedele al film di riferimento. Da Elia Shilton nei panni del tormentato giudice Abrahmsson, al trio di artisti interpretato da Alice Arcuri, Giampiero Judica e Antonio Zavatteri, si ha la sensazione di osservare un’interazione tra parti frammentate di una stessa coscienza. La scenografia di Roberto Crea ci porta all’interno di uno spazio simbolico: al centro del palco, su un piano rialzato, è situato l’ufficio, mentre il fondale e le quinte sono completamente bianche. La maggior parte delle scene si svolgono nell’ufficio, mentre altre sono ambientate in vari luoghi che si situano nel biancore astratto del palco, con alcuni elementi scenografici o oggetti di scena, portati di volta in volta dagli attori, che aiutano a identificare l’ambiente in questione.

Questo spazio rafforza il senso di isolamento e solitudine del giudice, nonché la superiorità del suo ruolo, mentre i costumi di Giuseppe Avallone sottolineano la profonda distanza che lo separa dagli artisti: il giudice, infatti, indossa un completo formale e i teatranti si presentano sempre in abiti bianchi, a simboleggiare la libertà e le infinite potenzialità dell’arte, ma anche la crisi dell’arte stessa, della mancanza di idee, di contenuti e di messaggi da trasmettere. Un’arte che ha perso il suo scopo, a detta dello stesso Hans, non più convinto della “missione” del suo gruppo. Alla morte dell’arte si affianca la crisi dei rapporti sentimentali tra gli artisti, impegnati in una relazione a tre ormai giunta a un punto critico. Interessante l’uso del proiettore nell’ufficio che funge contemporaneamente da corpo illuminante, mezzo narrativo ed elemento scenografico, proiettando diverse fotografie e immagini evocative analizzate dal giudice.

Così si assiste a una discussione sul ruolo degli artisti, sui limiti e il potere destabilizzante dell’arte, che culmina nel finale con il tanto atteso numero, un vero e proprio rito dionisiaco. Qui i ruoli si ribaltano: Abrahmsson cade letteralmente dal suo ufficio, passando da giudicante a giudicato e perdendo l’autorevolezza del suo ruolo, mentre rivela agli artisti la sua repressa identità e i suoi desideri sommersi, in preda a un’estasi che gli sarà fatale. L’adattamento di Postiglione de “Il rito” riporta a teatro le atmosfere e la poetica di Bergman, ricordandoci come l’arte sia l’unico strumento in grado di scuotere le coscienze.