di Laura G. Granata

CLITENNESTRA

Su una scena fatta di oggetti di casa e cimiteriali, sulla quale i presenti si muovono con aria spettrale, senza permettere di capire a chi guarda chi è morto e chi vivo, armati di torce come a voler illuminare una realtà inaccessibile e insondabile, appare e interrompe subito il tetro silenzio, Clitennestra. “Sono abituata ormai all’odore di morte” sono le sue prime parole che fissano e suggellano definitivamente l’atmosfera funerea dell’allestimento della tragedia “Clitennestra” di Roberto Andò, andato in scena nell’ambito del “Pompeii theatrum mundi”. La vicenda della protagonista è nota: Clitennestra prende la decisione di vendicarsi del marito Agamennone, uccidendolo, dopo essere stata ingannata da lui. Infatti questi conduce la figlia Ifigenia lontano da casa facendo credere di volerla dare in sposa ad Achille, ma invece delle nozze Ifigenia trova la morte e viene sacrificata agli dei nella speranza di vincere la guerra.

Clitennestra, interpretata da una Isabella Ragonese che incede sulla scena sinuosa e felina, sveste i panni della gelida assassina per indossare sia quelli di una donna che ritrova quella forza ancestrale e innata di difesa e protezione, sia quelli di una donna ferita, inspiegabilmente complice e vittima di un inganno. Il tempo in cui la protagonista si trova a vivere è un tempo di guerra, ferale, in cui, in nome di un invisibile bene superiore, viene sacrificato l’amore materno e la vita di una figlia. A questo tempo di morte, morte che viene descritta con aggettivi di natura squisitamente olfattiva – la morte secondo la protagonista ha infatti un odore dolciastro e zuccheroso – , fa da contraltare un secondo tempo, che è però anteriore a quello della tragedia, un tempo in cui gli dei svegliavano gli esseri umani di mattina con parole soavi. Ed è proprio in questo tragico chiasmo che si dischiude non tanto, o almeno non solo, la tragedia di una madre, ma quella sociale.

A rivelarlo è, probabilmente, lo stesso Agamennone, quando informa la moglie di dover sacrificare necessariamente la figlia perché così si aspetta il suo popolo, perché il volere degli dei è chiaro. Ma in questa trama drammatica, sapientemente intessuta da Andò che ha adattato il romanzo di Colm Tόibín “La casa dei nomi”, gli dei non compaiono mai, non si vedono neanche sotto la luce abbagliante di quelle torce che vengono mantenute nella prima scena da quei personaggi che sembrano come sotto l’effetto di qualche incantesimo, così come non li vede più Clitennestra. Sulla scena, sullo sfondo, e nelle danze talvolta tribali, talvolta liberatorie, non c’è altro che l’essere umano che, solo nelle sue lotte contro i suoi simili, invoca gli dei per giustificare la sua ferocia. Se è vero che la religione è l’oppio dei popoli, allora Clitennestra sembra trovarsi in una “no smoked area”. Unico personaggio lucido, la regina di Micene, si impone sulla scena quasi come un’atea, e proprio da atea prende la decisione di uccidere il marito Agamennone.

Come si diceva al prima fa da contraltare l’ora, un tempo impietoso, e a questi due tempi, si unisce quello della tragedia che è strutturato sui flashback. Proprio su questo affastellamento di spazi temporali sembra che il regista voglia innescare la confusione di essere al mondo. L’esito di questo malessere, nella tragedia, si manifesta nelle affermazioni reiterate che la sorella di Ifigenia, Elettra, ripete alla madre quando dice “sei tornata senza di lei”, e quando smette si stende sul letto, prostrata, proprio come chi giace quando abbandona la vita. E allora la sola cosa chiara risulta essere che, in un mondo in cui la ragione è addormentata, la differenza tra i vivi e i morti è, a volte, invisibile.